Come nasce un piatto

Come nasce un piatto?

Me lo chiedono spesso, e credo dipenda dal fatto che una delle più grandi curiosità che abbiamo riguarda il momento creativo. Quando ci troviamo davanti a qualcosa che ci colpisce ci fermiamo sempre a pensare «E questo, da dov’è uscito?», spesso interrogandoci sulle nostre capacità: «A pari condizioni, sarei anch’io in grado di produrre qualcosa di simile?». Mi è capitato molte volte di chiedermelo, di solito è il gesto architettonico e ingegneristico a farmi ragionare sulla fonte dell’ispirazione. Ricordo che ho letto la storia della costruzione del ponte di Brooklyn pensando che mi sarebbe piaciuto realizzare qualcosa di altrettanto grande. I ponti mi fanno questo effetto – anche certi brani di musica (mi piace molto per esempio la musica di Ennio Morricone).

Tornando a quel “Come nasce un piatto?” che forse è la domanda più gettonata di sempre (anche l’andamento delle domande nel corso degli anni sarebbe da studiare, vanno a periodi, sono soggette a tendenze determinate), la prima cosa che mi viene sempre da rispondere è un onestissimo “Boh?”. Dico sul serio: l’istinto è ammettere che non ne ho la più pallida idea.

Con gli anni però, crescendo, ho cominciato a farmene un’idea. Ho cominciato per eliminazione, ovvero comprendendo da cosa non nascono i miei piatti. So con certezza che i miei piatti non nascono dal calcolo. Non comincio quasi mai ragionando sulla destinazione (mi serve un primo per il Reale, un secondo per Spazio) e non ragiono – anche se forse dovrei! – in termini di food cost. Per me comincia tutto dai materiali, che sono la chiave attraverso la quale io sperimento il mondo intorno a me. Quando visito un luogo dove non sono mai stato prima, per esempio, la prima cosa che faccio è toccare le superfici. Chi mi conosce mi ha più volte visto entrare in un locale, in una casa, in una chiesa e passare la mano su una parete, sondare la struttura di un corrimano, bussare su un vetro o un piatto, accarezzare un tavolo o la seduta di una poltrona. Poi passo alle domande; com’è stato costruito? Che caratteristiche ha? Come conduce il suono, il calore? Come lo pulite? Che costi ha? E via così. Per non parlare dei cantieri: il cantiere per me è un parco giochi.

Lo stesso mi capita con le materie prime che usiamo in cucina. Trovo qualcosa che mi colpisce (mentre sono al mercato, oppure al ristorante, perché qualcuno mi manda una foto o sto leggendo un libro)? È la fine.
Io funziono come una spugna ossessiva: non è una descrizione lusinghiera ma è calzante. Identifico l’oggetto del mio desiderio di quel momento e parto all’attacco: prendo l’ingrediente e lo giro da tutte le parti, leggo tutto, provo tutto. Assorbo le nozioni e non mollo. Mi piace fare ricerca e quindi ogni mattina, per periodi che a volte durano anche qualche mese, appena sveglio scendo in cucina, caffè doppio e parto con i ragazzi della brigata, che si fanno contagiare da questa mia ossessione. Proviamo, assaggiamo. Non siamo convinti? Si butta tutto e si ricomincia. Si interpella un esperto, si cerca di rintracciare quel macchinario di cui abbiamo sentito parlare e che forse ci può aiutare. Trascriviamo i passaggi, registriamo i risultati, facciamo foto. Questo è molto importante e ai ragazzi che studiano e si mettono in gioco per trovare una loro voce, per impostare la loro cucina, raccomando sempre di tenere un diario di cucina dove annotare ogni prova, perché non si sa mai quando qualcosa che oggi non serve o non funziona potrà tornarci utile. Prima o poi succede.

Calamaro, pepe e lattuga è nato da una serie infinita di tentativi: 7 versioni con non so più quante micro-varianti. Il Tortello affumicato di capocollo di maiale laccato in bianco è nato da una serie infinita di prove (sullo spessore della pasta, sulla ruvidità della pasta, sulla callosità della pasta; ma è l’umidità interna che ci ha fatti impazzire, perché l’intento era emanciparci dalla salsa, ma per riuscirci l’umidità interna doveva essere perfetta e la superficie doveva essere “laccata”). Il Carciofo arrosto è stato un parto, felice ma eccezionalmente laborioso. Idem per Verza e patate, che spiegherò prossimamente. Non comincio neanche a scrivere – perché il lavoro è tale da richiedere, forse, un libro tutto suo – del percorso che abbiamo fatto con il pane e in queste settimane con la Bomba: è al centro di un grande progetto, e stiamo lavorando notte e giorno con un interessante mix di tecnologia e fai-da-te (un normale frigorifero con una ventola modificata è diventato una camera umidificante). A volte – raramente, ma capita – getto la spugna (la spugna getta la spugna, non mi sfugge l’ironia…).

Eppure imparo sempre qualcosa, non è mai fatica sprecata.

Da dove nasce un piatto? Per me, quasi sempre, dal singolo ingrediente. Da una sorta di trance ossessivo-compulsiva con al centro l’ingrediente. È un ingrediente, ma potrebbe essere granito, legno, metallo. Infatti dico sempre che sono le circostanze della vita ad avermi portato a fare il cuoco, ma che forse avrei fatto con soddisfazione anche l’architetto, o il chimico. Chi lo sa.

Non credo sia così per tutti: chi lavora bene non solo senza carta, ma anche senza un percorso degustazione preimpostato, improvvisando al momento sulla base di ciò che offre il mercato, lavora chiaramente secondo parametri e con una metodologia completamente diversa. Non significa necessariamente che faccia meno ricerca: bisogna avere accumulato parecchie ore “in officina” e avere grande padronanza tecnica per creare in poco tempo un piatto che sia forte e sensato. Non c’è meglio o peggio, forse siamo due facce della stessa medaglia (in effetti è capitato anche a me di creare un piatto in poche ore, sotto pressione, e di non rimetterci più mano: è il caso dei Ravioli con ricotta di bufala, distillato di bufala, pepe e capperi, ideati per Le Strade della Mozzarella nel 2013).

L’importante è il rispetto – per il gusto, per la verità dell’ingrediente. Per il piacere di mangiare.

A presto,
Niko