Contaminazione

A New York ho trascorso qualche giorno combattendo il freddo (-16 gradi centigradi, se si considerava l’effetto del vento), cercando di vedere e assaggiare quanto più possibile.

Non facile con quelle temperature. Ho visitato tra l’altro il nuovo museo Whitney progettato da Renzo Piano e a un certo punto, esplorandone le sale, ho ripensato a qualcosa su cui rimugino da un po’: l’importanza – e il rischio – della contaminazione. Piano è un italiano contaminatore, e ha lasciato segni magnifici dal Giappone all’America passando per l’Italia, come i molti altri uomini e donne che da sempre diffondono l’eccellenza del nostro paese. E chi va fuori quasi sempre si fa a sua volta plasmare, riporta suggestioni e idee dai viaggi oltre-confine.

Ma come funziona la contaminazione per un giovane che fa il mio mestiere oggi? Quanto costa? Quanto vale? Non è facile rispondere.

La cucina italiana è frutto di stratificazione: come lastre di ardesia i nostri ricettari in sezione mostrano falde compresse, riconducibili tanto alle regioni italiane quanto a Spagna e Francia, luoghi dove si è costituita la cultura gastronomica occidentale. Ogni cuoco da che mondo è mondo si è sempre fatto contaminare, ha ascoltato (a volte poi rifiutato) la lezione d’Oltralpe, viaggiato, anche molto lontano. Ma il nucleo delle cucine nei nostri ristoranti è rimasto a lungo saldamente tricolore, perché le fondamenta erano state gettate qui.

Un giovane su tre mi confessa di voler emigrare, di chi resta si dice che “si sacrifica”: certamente non è facile trovare lavoro in Italia, e rilevo molta frustrazione tra chi cerca inserimento in un settore dove ci sono più domande che richieste e dove esiste un problema concreto che riguarda la formazione e gli stagisti. La spinta a partire c’è da sempre, e non solo tra i junior del nostro settore. Ma troppo spesso chi si imbarca in un Grand Tour dell’Europa, dell’America o dell’Asia lo fa non avendo ancora coltivato i geni della propria italianità. E quando torna (se torna) difficilmente riesce a esprimerli al meglio, o forse non vuole neanche.

Ed è qui che perdiamo tutti.

Sempre meno ragazzi si interessano alle tradizioni delle regioni meno battute. La Basilicata, la Calabria, la Sardegna, il Molise, l’Abruzzo: tolti i cuochi che vi nascono e crescono professionalmente, chi le studia? Tra i giovani d’oggi non è più di moda farsi influenzare dalla tradizione gastronomica del nostro paese. Anche quella si potrebbe definire contaminazione, ma evidentemente non è considerata abbastanza “ganza”. Per tanti aspiranti cuochi oggi è più importante dire di aver mangiato al bancone del nuovo ramen bar di New York o di aver fatto domanda per uno stage in Svezia o Danimarca piuttosto che mostrare una buona conoscenza delle cucine regionali italiane, persino di quelle più mediaticamente note come la piemontese, la veneta, la toscana. Il rischio è che in Italia cominci a mancare l’Italia nel piatto. E questa evanescenza del nostro Dna gastronomico rischia di traboccare anche al di fuori della portata, nei tovagliati, nelle ceramiche, nel look del locale, nelle divise. Invece si dovrebbe voler entrare in profondità nella nostra tradizione, con sensibilità e tecnica contemporanee.

Contaminarsi con l’estero è stupendo, è elettricità, è sangue fresco, e per un cuoco – come per chiunque faccia un lavoro di nocche e fantasia – può essere molto utile. Ma la contaminazione bisogna guadagnarsela, bisogna prepararsi a incorporarla, e per farlo bisogna avere basi solide, avere formato e poter dire di saper mantenere una propria identità. Piace scoprirsi contagiati dal ceviche, dalle alghe e dalle fermentazioni? Benissimo: personalmente li apprezzo tutti e tre, ho avuto occasione di usarli, oltre ad altri prodotti e tecniche di paesi lontani, ma penso a un giovanissimo che non ha ancora centrato il proprio linguaggio personale, la propria visione, me lo immagino con queste contaminazioni e mi fa lo stesso effetto di una persona che parlando italiano infarcisca ogni frase di 4 o 5 parole inglesi.

A New York ho assaggiato un ramen interessante (sì anch’io mi sono seduto a quel bancone) e ho pensato a come sarebbe stato rifarlo con uno dei nostri brodi; ho trascorso ore a girovagare tra gli scaffali di uno dei supermercati più forniti della città con la voglia di portare a casa buste di semi e macinati per fare qualche prova al Reale, ma sempre avendo ben chiari i binari su cui mi muovo che sono, lo ripeto, italiani. Va bene fare un Grand Tour dei paesi lontani, ma allora dico che al loro ritorno i nostri giovani curiosi dovrebbero imbarcarsi in un Grand Tour dell’Italia, affrontandola come farebbero con l’Australia.

Fare ricerca è anche questo.

A presto,
Niko

Nella foto: “I was just thinking”
Ricci Albenda (2009)
Whitney Museum