Il Brodo

Sono a Hong Kong per lavoro, cucino fino a domenica al ristorante Tosca del Ritz-Carlton con la brigata del Reale e lo chef Pino Lavarra.
Il jet lag non mi fa dormire e allora penso al brodo. Nel giro di pochi giorni è uscito inaspettatamente in due contesti completamente diversi, e quando capita qualcosa del genere non è mai una coincidenza.

Appena prima di partire per la Cina ero con la gallerista napoletana Lia Rumma, donna spiritosa, magnetica, con un intuito pazzesco: lei ricordava un suo brodo di gallina cucinato per William Kentridge e così mi ha fatto tornare in mente un brodo che avevo preparato a Casadonna per Ettore Spalletti, un grandissimo artista abruzzese, schivo e profondo, che entrambi amiamo molto. Tre giorni dopo ero a Hong Kong e sono andato al ristorante della catena taiwanese Din Tai Fung (una stella Michelin nel 2010), dove ho assaggiato i tipici Xiaolongbao ripieni di brodo: mi hanno colpito, per la pasta sottilissima (mi hanno spiegato che nel nord del paese si usa più spessa) cotta al vapore, e il succo di maiale bollente che esplode in bocca. Ho chiesto allo chef cantonese del Ritz di spiegarmi come si preparano.

Io amo il brodo. È calore, conforto, quasi un abbraccio; è dolore, struggimento, fatica: è una stretta al cuore il brodo. È eleganza.
Rimanda alla tradizione della cucina italiana, dal Nord al Sud: in Abruzzo prima delle feste si usa servirne uno di manzo e pollo con verdure, pane fritto e odori. Ne ho inserito la ricetta in “Semplicità Reale” (Giunti, 2009), insieme a quella di un brodo di capra con dragoncello e lampone. Al Reale nel menu degustazione “Essenza” servo il Brodo leggero di vitello e cannella con ravioli di lingua, mentre nel percorso “Ideale” ho inserito  l’Infuso speziato di funghi”, piatto nuovissimo che in superficie sembra quasi laccato. In carta ho sempre l’Assoluto di cipolle, parmigiano e zafferano tostato e a Spazio stiamo per inserire il Brodo di canocchie e dragoncello con cappelletti ripieni di cardo. C’è sempre un brodo nella mia carta, da tanti anni, da quando ho cominciato.

All’inizio facevo brodi classici, applicando le nozioni che tutti conosciamo: si comincia con una base di acqua fredda e si aggiunge una parte vegetale ed eventualmente animale per estrarne sapori e umori e trasferirli al liquido; fiamma bassa e lunga cottura fino a raggiungere un’ebollizione appena visibile; si chiarifica (utilizzando albume d’uovo) e filtra, per eliminare le impurità e rendere il liquido limpido, rischiando però di indebolirne il sapore. Man mano che il mio gusto evolveva e cercava la purezza ho cambiato approccio e così è nato il lavoro sull’estrazione da vegetale cotto (nel caso della cipolla, sotto sale), ovvero il concetto di “assoluto”: non potevo più chiamarlo “brodo” perché non si partiva da base acqua, anche se eliminando la polpa e conservando solo il succo ottenevo un liquido con la stessa densità del brodo. Gli assoluti li ho poi concentrati e usati per “verniciare”, come nel caso del carciofo: tutto senza mai aggiungere grassi o soffritti, mirando alla leggerezza senza rinunciare al gusto.
Per Vitello e cannella sono tornato al brodo “classico” e mi sono messo a studiare. E qui, una rivelazione: cuocere partendo da acqua fredda per estrarre maggiormente i succhi è una perdita di tempo. È dopo i 70°C che le proteine rilasciano totalmente i liquidi e arrivarci gradualmente non è cruciale, per un brodo non è necessario “salvaguardare” la carne. Dopo molte prove ho trovato la mia temperatura ideale, 80°C: qui ottengo un brodo che assorbe tantissimo dalla carne ma senza arrivare a bollire. Evitare il bollore è invece fondamentale per preservare la limpidezza del liquido. Massimo gusto, massima limpidezza e in più massima leggerezza (perché la torbidità è segno anche di rilascio di grassi nel liquido). Il brodo così ottenuto è trasparente e concentrato di sapore e “regge” il raviolo ripieno di lingua, un confronto tra pari. Mi infastidisco quando un cliente mangia la pasta e lascia il brodo: c’è voluto tantissimo lavoro per arrivare a questo prodotto!
L’ultimissimo in ordine di apparizione è stato l’Infuso di salvia, che abbiamo cominciato a servire in apertura al Reale: è amaro (“troppo”, per qualche cliente), balsamico; si sente tutta la salvia in potenza. Lo offro in una tazza primo ‘900, classica, con il bordo d’oro, perché mi piace il contrasto tra quell’oggetto da tavola dell’alta borghesia e un liquido che è quasi “selvaggio” (così è la natura: non va addolcita, non dev’essere rotonda, non deve piacere a tutti).

Ecco, per ora sono arrivato qui. Cos’è il brodo? Calore, conforto, un abbraccio, ma anche purezza e potenza, quasi una lente d’ingrandimento sul piatto. Tra poche settimane sarò a New York: mi hanno detto che Marco Canora (cuoco lucchese, del ristorante Hearth) fa brodo “da passeggio” e sono curioso di provarlo.

Ultima riflessione: in Italia, parlando di ristorazione “di mezzo”, sarebbe bello ragionare sulla grande trattoria del futuro. Non lo facciamo ancora abbastanza (io per primo) e invece dovremmo.
Di sicuro, là non mancherà un ottimo brodo. Ma questo è un altro episodio.
Qui sono le 3 del mattino e io – finalmente – vado a letto.

A presto,
Niko